Sapevo che prima o poi sarebbe successo. E in fondo è anche andata bene.
Premetto che ho un buffo difetto: mi imbarazzo tantissimo quando qualcuno legge una bozza mentre la sto scrivendo. È come se mi beccasse prima che abbia il tempo di coprire le mie vergogne.
Se vedo un passeggero accanto a me sbirciare, inizio improbabili contorsioni: mi rannicchio, mi piego, metto un braccio davanti. Sembro un secchione che non vuole far copiare il compito.
Non c’è astio, sia chiaro: io per primo riesco più facilmente a resistere ad un décolleté che ad una pagina di diario.
Stavolta però, per una strana congiuntura delle posizioni tra pendolari, non riesco a proteggermi in alcun modo. Ho solo un’alternativa: smettere di scrivere. Ma ho tra le mani un’idea che mi diverte e non voglio fermarmi solo per una stupida idiosincrasia.
Non mi resta che sperare nella discrezione del mio compagno. Invano.
All’improvviso parte un mio starnuto irrefrenabile.
《Salute!》, esclama il mio compagno, che sembra stesse solo aspettando un appiglio.
《Grazie.》
《Sei bravo a scrivere! Dovresti provare a farti pubblicare qualcosa.》
《Grazie. Ci sto lavorando》, sorrido imbarazzato. Poi chiarisco: 《Si fa per dire: è solo un hobby. Il mio lavoro è tutt’altro…》
《Beato te che ce l’hai un lavoro…》, sospira.
Mi racconta quindi le parti salienti della sua vita, con tristezza ma anche con grande dignità. Non cerca aiuto: soltanto ascolto.
Sarebbe oro per un nuovo post ma chiudo il tablet. Io, che in treno sono un orso, per una volta preferisco la persona alle parole.
Quando arriva alla sua fermata ci salutiamo calorosamente.
Non scriverò mai niente di ciò che ci siamo detti, per rispetto della sacra condivisione umana che per un attimo si è creata.
Anche se — me ne rendo conto solo dopo — non ci siamo neanche detti come ci chiamiamo.