Stavo giocando in spiaggia con il Supertele, il mitico pallone che violava innumerevoli leggi della fisica nonché ogni tipo di previsione su direzione e distanza che avrebbe percorso.
《Lancialo in mare!》 incitò mio padre, 《Vedrai che le onde lo riporteranno indietro!》.
E le onde in effetti lo riportarono indietro, l’estate successiva. Lo ritrovai sulla stessa spiaggia: sgonfio, schiarito e ricoperto di paguri, lumache di mare e una patina leggera di alghe. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso: era uno spettacolo che mi inquietava e mi affascinava al tempo stesso.
Due mondi inconciliabili si erano incontrati e avevano creato qualcosa di nuovo. Se non bello, quanto meno ipnotico.
Questo ricordo d’infanzia riaffiora oggi in treno e il motivo non è difficile da trovare: sono seduti di fronte a me.
Lei ha intorno ai cinquant’anni. Un lungo vestito che sembra di seta e i capelli coperti interamente da un hijab, che è poi una parola complicata per indicare il velo che portava anche mia nonna. Ma alla mia antenata non sarebbe mai venuto in mente un secondo utilizzo del copricapo: il velo, così perfettamente legato e avvolgente, è perfetto per reggere lo smartphone. La trovata le permette di avere le mani libere, per poter sottolineare i punti salienti dell’incomprensibile telefonata con una ricca gestualità.
Lui ha trent’anni in meno. Occhiali a specchio e jeans strappati nei punti giusti. Fa ondeggiare ritmicamente la testa, accompagnando i quattro quarti che lo dondolano attraverso le cuffie. Sembra ignorare la telefonata di quella che molto probabilmente è sua madre.
Quando però la signora stacca il telefono sento intonare un canto. Sembra un neomelodico napoletano ma più serio, o un ambulante siciliano ma più intonato. È sommesso e non subito riesco ad identificare l’origine: parte dallo smartphone del ragazzo. Ha tolto gli auricolari e ha messo il volume al minimo. È l’ora della preghiera e non c’è un muezzin vero a portata di mano. Ma c’è pur sempre una app in sua vece.
(Ph.: Iardo)